Delitto Moro: Cossiga informato 2 ore prima della telefonata di Morucci

“Cossiga sapeva già della morte di Moro e di via Caetani almeno 2 ore prima che Morucci chiamasse Franco Tritto”. La rivelazione che riapre il caso mai chiuso del delitto Moro arriva a 35 anni di distanza per bocca di Vitantonio Raso, artificiere che per primo aprì la Renault 4 rossa. Chi però non ha stampata nella mente la voce di Valerio Morucci, membro delle Brigate Rosse, che il 9 maggio 1978 verso le 12 e 13 telefona al professor Franco Tritto, amico intimo della famiglia Moro, per dargli la terribile notizia dell’avvenuta esecuzione del presidente della Dc e indicargli il luogo dove ritrovare il corpo, via Caetani, all’interno di una Renault 4 di colore rosso? Eccone l’incipit:

– Pronto?

– E’ il professor Franco Tritto?

– Chi parla?

– Il dottor Niccolai.

– Chi Niccolai?

– E’ lei il professor Franco Tritto?

– Sì…

Morucci, alias il compagno Matteo, è poi costretto a cambiare tono di fronte alla sorpresa di Tritto:

– Ma chi parla? -continua a chiedere Tritto- Sì, ma io voglio sapere chi parla…

Morucci respira nervosamente nella cornetta: –Brigate Rosse. Va bene? Ha capito?

– Sì.

 

La drammatica telefonata prosegue poi con le indicazioni del brigatista: “Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani…”.

Fino a questo momento, o meglio, fino a pochi giorni fa, la verità storica provata da immagini e registrazioni era che il povero professor Tritto fosse stata la prima persona, esterna all’organizzazione del Partito Armato, a ricevere la notizia dell’omicidio e conoscere il luogo dove poter recuperare le spoglie dello statista democristiano. Ebbene, anche queste certezze (per gli ingenui che ne avevano) vanno adesso invece a bollire nell’opaco calderone dei Misteri Italiani.

L’antisabotatore Raso, recentemente autore di un libro (La bomba umana), è miracolosamente guarito da una malattia quasi incurabile, l’amnesia istituzionale (stesso morbo da cui si sono “salvati” Martelli, Violante ed altri pezzi grossi riguardo alla “trattativa Stato-mafia” all’indomani delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino), ed ha ritrovato la memoria per trasformarsi finalmente in una bomba umana. Le parole di Raso riportate dall’Ansa e dal sito vuotoaperdere.org sono agghiaccianti: “La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere, sapeva. Ne parlo oggi per la prima volta, dopo averne accennato nel libro, perché spero sempre che le mie parole possano servire a fare un po’ di luce su una vicenda che per me rappresenta ancora un forte choc. Con la quale ancora non so convivere”.

La scusa della patimenti spirituali (“un forte choc…non so convivere”) non regge proprio alla prova della ragione umana. Raso l’eroe, così almeno si pensava, diventa protagonista di un deja vu, “Non sono mai stato interrogato”, che ha rappresentato un classico della storia d’Italia. Quello che invece desta una morbosa attenzione, vista la caratura del personaggio, sono la accuse dirette al Picconatore, il defunto Francesco Cossiga: “Quando dissi a Cossiga, tremando, che in quella macchina c’era il cadavere di Aldo Moro, Cossiga e i suoi non mi apparvero né depressi, né sorpresi come se sapessero o fossero già a conoscenza di tutto”.

Dichiarazione da terremoto, supportata anche dal collega Giovanni Circhetta, che va a cozzare con quanto dichiarato all’Huffington post dall’81enne generale Antonio Cornacchia, nel 1978 comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri: “Me lo ricordo perfettamente quel 9 maggio del 1978. Quando mi dissero di andare in via Caetani erano le 13,20. Quando arrivammo, non c’era nessuno. La Renault era chiusa”. Cossiga ovviamente non può più difendersi, così come Andreotti non potrebbe più aiutarlo con l’archivio dei suoi ricordi, ma si ha la netta impressione che la morte dei Big della Prima Repubblica abbia riaperto dei sepolcri che sembravano saldati per sempre.

Omicidio Dalla Chiesa: in un video Rai la valigetta scomparsa

L’attenzione sul misterioso caso dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della giovane moglie Emanuela Setti Carraro, avvenuto a Palermo il 3 settembre 1982, si era già ridestata da qualche giorno, quando il pm palermitano Nino Di Matteo aveva ricevuto la solita lettera anonima, un classico della letteratura dei molti Misteri italiani, nella quale lo sconosciuto autore riferiva che “un ufficiale dei carabinieri ha portato via quella borsa, che conteneva dei documenti”. La borsa in questione è quella descritta per l’ennesima volta la settimana scorsa dal figlio del generale, Nando Dalla Chiesa: “Mio padre non si separava mai da una valigetta di pelle marrone, senza manico. Dopo la sua morte, non l’abbiamo più trovata. Pensavano che fosse andata persa nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così”.

Adesso l’inchiesta sta subendo ufficialmente un’accelerazione perché quella borsa è ricomparsa. Non nelle mani dei magistrati della Dia o di qualcun altro, ma in un video custodito nelle teche della Rai che avrebbe ripreso, ma il condizionale è ancora d’obbligo, un ufficiale dell’Arma che tiene sotto il braccio un borsello molto simile a quello descritto da Nando. Per il momento ai media è stato fornito solo un fotogramma, sfocato e incerto, ma pm ed inquirenti credono di aver imboccato finalmente la pista giusta.

 

Ieri è stato subito convocato in procura, come persona informata sui fatti, proprio Nando Dalla Chiesa, probabilmente per confermare quanto già dichiarato e, forse, per visionare il filmato incriminato. Comunque, per il momento, nulla trapela dalla procura palermitana. Secondo l’anonimo corvo, autore della missiva, in quella valigetta erano contenuti dei documenti riservati su alcune indagini scottanti che il generale stava portando avanti. Di quali indagini si tratti starà ai magistrati scoprirlo; fatto sta che, fino ad oggi, le attenzioni investigative erano tutte incentrate solo sulla cassaforte situata nell’abitazione del da poco nominato prefetto di Palermo. Negli anni ’80 era stato proprio il pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a indagare sulla presunta sparizione d importanti documenti proprio da quella cassaforte.

Adesso, invece, si viene a sapere che il contenuto della borsa di pelle era forse più scottante di tutto il resto. Una storia fitta di misteri che sembra ricalcare in parte la drammatica vicenda del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione dei 5 uomini della sua scorta da parte della “geometrica potenza” delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. La querelle sulle borse di Moro continua ancora oggi, a distanza di 35 anni, alimentata soprattutto dal doppio ritrovamento, nel 1978 prima e nel 1990 poi, dei documenti manoscritti del politico Dc nel covo Br di via Monte Nevoso 8 a Milano. Anche per quanto riguarda la strage di via D’Amelio, poi, in cui furono fatti a pezzi Borsellino e i suoi angeli custodi, non si è mai smesso di cercare la famosa Agenda Rossa, divenuta simbolo dell’omonima associazione presieduta da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo.

Ma di documenti spariti e dossier volatilizzati è piena la storia giudiziaria italiana. Di depistaggi invece, neanche a parlarne. Uno su tutti quello messo in atto da Licio Gelli e dai vertici del Sismi infiltrati dalla P2 per far ricadere la responsabilità della strage di Bologna sullo spontaneismo armato dei Nar, coprendo così i veri autori dell’eccidio. Per Bologna sono stati riconosciuti colpevoli Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che a tutt’oggi si dichiarano però estranei alla vicenda di sangue. Con la valigetta di Dalla Chiesa non si fa altro che continuare a raccontare una vicenda che i libri di storia ancora non hanno scritto.