Il Pd vuole le dimissioni di Bersani e pensa a Renzi premier

La paura in casa Pd è quella di venire travolti dallo Tsunami Grillo e di sparire definitivamente dai radar della politica italiana. Le ultime notizie ufficiali descrivono il segretario Pierluigi Bersani risoluto a portare avanti la linea del dialogo con il Movimento5Stelle. Tutto pur di tornare ad occupare le poltrone di Palazzo Chigi. Ma le quotazioni dello smacchiatore di Bettola sono nettamente in ribasso. Proprio ieri, infatti, Bersani ha ricevuto due pugnalate inaspettate. Ad infierire sul corpo del segretario, già martoriato dagli attacchi interni del duo D’Alema-Veltroni e dal ritorno sui media di Matteo Renzi, sono stati due collaboratori considerati fino a ieri dei fedelissimi.

Si tratta di Alessandra Moretti e Tommaso Giuntella. La prima, vicesindaco di Vicenza, divenuto volto nuovo e “pulito” della tv per il Pd, ha compiuto il suo tradimento dalle colonne del Corriere della Sera. “Se la direzione individuasse un’altra figura di garanzia per dialogare con il M5S, tutti dovremmo pancia a terra lavorare per questo. Il primo a tirarsi indietro sarebbe Bersani”, ha detto la Moretti. Parole che, tradotte dal politichese, significano un benservito alla linea Bersani data ormai per perdente. Ancora più duro è sembrato Giuntella secondo il quale “è mancato un coordinatore della campagna”, avendo invece ben presente che un coordinatore c’era eccome: Stefano Di Traglia, considerato il vero responsabile della debacle elitarista dello staff Democratico.

 

L’attacco dei due esponenti emergenti della segreteria nazionale si rivela ancor più preoccupante se si considera che Moretti e Giuntella sono molto vicini alle posizioni dei Giovani Turchi, Matteo Orfini, Stefano Fassina e Andrea Orlando, considerati finora una spalla sicura per Bersani. Anche loro, caduti dalle nuvole dopo il boom di Grillo, si stanno convincendo che o si dà una sterzata decisiva al partito o si muore. Alla luce di queste dichiarazioni, diventano più limpidi i motivi che hanno spinto Matteo Renzi  a tornare sulla scena. “Grillo non va rincorso, va sfidato. Sulle cose di cui parla, spesso senza conoscerle”, mette nero su bianco sul web il sindaco di Firenze. Poi, la stoccata decisa contro Bersani e il gruppo dirigente: “Quando durante le primarie, chiedevamo di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, o ai parlamentari e consiglieri regionali di rinunciare ai vitalizi, fino alla richiesta di non considerare appestati quelli che la volta prima avevano votato Lega o Pdl o fino alla proposta di far uscire i partiti dalla Rai, noi eravamo chiari. Ma non abbiamo avuto la capacità di convincere. Colpa mia, l’ho detto”.

Un j’accuse neanche troppo mascherato quello di Renzi che, fingendo furbescamente di blandire il segretario (“io non pugnalo Bersani”), contribuisce invece a scavargli la fossa. Le ragioni della rivolta nel Pd –ad esclusione dei dinosauri come Bindi, Finocchiaro, Fioroni e Franceschini, terrorizzati dalla prospettiva di perdere le loro posizioni di rendita- sono la consapevolezza di trovarsi esposti al ricatto grillino. Dal suo blog, infatti, Beppe Grillo continua ad inveire contro Il mercato delle vacche del Pd, supportato dall’alter ego Gianroberto Casaleggio che, intervistato dal Guardian, ha confermato la linea anti-casta del M5S.

L’unica strada che sembra al momento praticabile è che Bersani e il gruppo dirigente gettino la spugna e passino la mano. A chi ancora non si è capito bene ma, se si vuole dar fede alle parole di Dario Fo, molto vicino alla coppia Grillo-Casaleggio, un flebile spiraglio di trattativa con il M5S ancora resta. Un eventuale accordo, o appoggio esterno del M5S, sarebbe condizionato dalla comparsa di facce nuove e di qualche nome credibile che, secondo il premio Nobel, “dentro il partito c’è”. Peccato che i bersaniani hanno lasciato intendere di voler continuare a condurre la nave anche con gli occhi foderati di prosciutto.

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