Brexit: la libertà dei popoli europei dalle catene di Bruxelles

Le ripetute ed incontrollabili crisi isteriche che hanno colpito i più alti rappresentanti del Potere capitalistico e bancario che da Bruxelles (e Washington) soffoca i popoli europei dentro a quel sistema iniquo chiamato Unione Europea, rappresentano la prova inconfutabile che la Brexit è stata una scelta giusta. Nonostante la massiccia, monodirezionale e terroristica campagna mediatica e politica messa in atto dai servi del Capitale brussellese, che pronosticavano, e si augurano tuttora, il crollo dell’economia britannica in caso di uscita dalla prigione UE, la maggioranza del popolo di Sua Maestà, la regina Elisabetta II, ha scelto senza dubbio di riprendersi la propria libertà di autodeterminazione, mollando per sempre al suo destino la piovra burocratica e vampiresca di una Unione Europea nata senza anima e attratta solo dall’odore dei soldi.

pugno-brexitLa boria e la frustrazione mostrate dal presidente della Commissione Europea -quel Jean Claude Junker che, invece di vergognarsi e pagare per lo scandalo LuxLeaks (e di rispondere alle fondate accuse di essere un alcolizzato), ha ancora il coraggio di presentarsi in pubblico per minacciare la perfida Albione- sono uno spettacolo impagabile che segna la fine di un’epoca. Per non parlare del terrore e dello sgomento apparsi negli sguardi della cancelliera tedesca Angela Merkel e dell’impresentabile presidente francese Jean Francois Hollande (detestato in patria ancora prima della loi travail, il jobs act in versione transalpina), costretti per disperazione e carenza di inglesi a far finta di cooptare nel mesto direttorio UE quel pagliaccio politico di Matteo Renzi. Lo stesso presidente del Consiglio italiano (mai eletto dal popolo e recentemente bastonato alle elezioni amministrative) che, da buon provincialotto dello Stivale, ha provato subito, furbescamente, a sfruttare la Brexit per ottenere uno sconticino e un occhio di riguardo per le disastrate finanze italiane. Risultato: una pubblica e umiliante tirata di orecchie ricevuta da Angelona durante l’ultimo vertice europeo.

Rimanendo in casa nostra, manca lo spazio per elencare i nomi dei tanti professionisti della poltrona e delle prebende (da Romano Prodi a Mario Monti, passando per quell’inossidabile complottista di Giorgio Napolitano) che hanno preso in ostaggio gli schermi televisivi per spiegarci quanto siano stati stupidi e ignoranti quei bifolchi di contadini e operai britannici che con il loro dannoso diritto di voto hanno compromesso il futuro di milioni di giovani figli di papà, londinesi ed europei, costretti da oggi in poi a perdere il loro prezioso tempo per mostrare un documento di identità alle trinariciute guardie di confine. Un modo di ragionare talmente elitario e arrogante da ridestare persino l’addormentato popolo italiano, fino a ieri drogato a calcio e cazzate dalle tv di Regime.

La Brexit, comunque sia, non rappresenta un fulmine a ciel sereno all’interno di un sistema politico-economico valido ed efficiente. La rabbia britannica contro Bruxelles è lo specchio della immensa crisi sociale che sta falcidiando il mondo e soprattutto l’Europa ai tempi della globalizzazione. Dimostrazione in salsa italica ne è stata la cosiddetta Renxit che gli italiani hanno messo in atto nel voto di domenica 26 giugno quando hanno inviato un bel ‘ciaone’ al renzismo. Le bugie dell’Italia che è ripartita, degli 80 euro, dei milioni di posti di lavoro piovuti con il jobs act si sono rivelate per quello che sono e la ‘ggente’, disperata, ha deciso che non ne vuole più sapere del Bomba di Rignano e della combriccola di sanguisughe e banchieri (praticamente due sinonimi) che lo dirige dall’esterno. Morale della favola, dunque, è che non è vero che, come ci ripetono a reti unificate i burattini della finanza internazionale con il complice servilismo di giornalisti prezzolati, senza Euro e senza Ue gli europei siano avviati verso la catastrofe. Anzi, al contrario, il voto inglese, che ha così sorpreso e intimorito il Potere costituito, rappresenta una occasione di riscatto e di rilancio per una visione del mondo che non sia solo quella tecnicistica e creatrice di disuguaglianze. Distruggere (per ricostruire in modo più equo) l’Europa delle banche non è più un tabù.

Quirinale, la legge di Renzi

Giornata politica italiana divisa tra le reazioni ai risultati clamorosi, ma attesi, delle elezioni in Grecia e le grandi manovre per il Quirinale. I membri del governo provano ad intestarsi la vittoria di Tsipras in Grecia, ma Lega, Sel e M5S li sbugiardano. Matteo Renzi incontra i parlamentari Pd per imporre un percorso condiviso (da lui e Berlusconi) sul Quirinale: porte aperte a una candidatura femminile, nessuna rosa di nomi come chiesto da Beppe Grillo, ma un candidato unico a partire dalla quarta votazione e scheda bianca nelle prime tre. Secondo il premier il nuovo capo dello Stato verrà eletto «sabato mattina», 31 gennaio. Francesco Storace denuncia la ‘tattica della scheda bianca’. Pippo Civati non ci sta e candida Romano Prodi. Domani al via le (finte) consultazioni tra partiti, M5S autoescluso.

 

renzi berlusconiL’incubo delle cancellerie europee, Alexis Tsipras, è divenuto reale dopo il trionfo di Syriza nelle elezioni greche. E allora i politici, soprattutto quelli italiani, per loro stessa natura ‘doppiogiochisti’, cercano di saltare sul carro del vincitore. È presto per abbandonare la nave dell’austerità di Bruxelles, la falla aperta da Tsipras potrebbe essere ancora riparata. Ma la casta dei nostri tenta comunque di piegare al proprio interesse la vittoria dei ‘rossi’ ellenici. Non si sa mai. Il primo a farsi avanti, di buon mattino, è il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che non considera affatto l’esperienza delle sinistra radicale greca come un trampolino di lancio per le aspirazioni degli antirenziani di casa nostra. Anzi, secondo lui, la vittoria di Tsipras non va letta come un gesto di rottura nei confronti delle politiche economiche Ue, ma solo come un passo avanti della ‘linea della flessibilità’ rispetto a quella, drammaticamente perdente, dell’austerità. In pratica, secondo la fantasia del titolare della Farnesina, Tsipras sarebbe il miglior alleato di Matteo Renzi che intanto però, con ostentato provincialismo, si perde in affettuose effusioni con Angela Merkel, cercando di venderle le bellezze artistiche di Firenze come nemmeno Totò con la Fontana di Trevi. Anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi, pur di occupare poltrone, si presta senza problemi ad una presa in giro globale affermando che «Tsipras in Italia si chiama Renzi».

Ci pensa Nichi Vendola a denunciare il tentativo dei renziani di mettere il cappello perfino sulla vittoria della sinistra internazionalista. «Lui e Renzi hanno idee molto diverse», dichiara il leader di Sel, «ecco perché trovo ridicoli quelli che dal Pd ieri scrivevano tweet entusiasti per la vittoria di Tsipras». A mettere in guardia il ‘George Clooney del Partenone’ ci si mette anche il grillino Luigi Di Maio con un «consiglio non richiesto». «Stai lontano da Matteo Renzi, la sua ipocrisia è pericolosa», scrive su facebook il ‘pupillo a 5Stelle’. Che l’effetto Tsipras rischi di rivoltare l’impolverata Ue come un calzino lo dimostrano le parole del leghista Roberto Maroni secondo cui la vittoria di Syriza «è più che un’apertura all’euroscetticismo. Può essere il grimaldello che scardina questa vecchia Europa e crea le condizioni perché si apra una fase nuova». Un possibile connubio tra gli opposti estremismi di destra e sinistra anticipato nei giorni scorsi dall’endorsement di Tsipras pronunciato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. In mezzo a questo sirtaki parlamentare, approfitta di Tsipras per farsi pubblicità persino il ‘fittiano’ Raffaele Fitto, in rotta con Arcore, secondo cui adesso «l’Ue cambia o muore».

Il capitolo Quirinale, entrato oggi nella settimana decisiva, si apre sulle Agenzie di stampa con una bugia grossa come una casa. A pronunciarla è il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, secondo cui «il patto del Nazareno riguarda solo le riforme, e non c’è nessuno scambio con la scelta del Presidente della Repubblica». Nessuno sprezzo del ridicolo da parte del lucano Speranza. Con queste premesse, si sono svolte in mattinata le riunioni dei gruppi parlamentari Dem con il premier, prima alla Camera e poi al senato. Scopo dichiarato è quello di tracciare una linea di partito comune in vista del primo scrutinio previsto per giovedì 29 gennaio. O meglio, sarà Renzi stesso ad imporre la sua volontà, pena la spaccatura del partito. «Il Pd voterà scheda bianca alle prime tre votazioni». È questa la proposta che non si può rifiutare formulata dal segretario/premier. Chi poi non dovesse condividere il nome del prescelto, calato dall’alto del patto del Nazareno, «dovrà dirlo apertamente». In modo da poter essere inserito per tempo, aggiungiamo noi, nelle liste di proscrizione che da qualche giorno circolano sui giornali (vedi ‘Il Foglio’ di Giuliano Ferrara imbeccato dal n. 2 renziano Luca Lotti).

Di fronte ai suoi Renzi sembra avere le idee chiare e risponde indirettamente a Beppe Grillo che ieri gli aveva chiesto di fare i nomi dei candidati piddini al Quirinale. «Non li facciamo perché poi decidano altri», ha detto il premier che non ci pensa proprio a farsi bruciare dai grillini il nome (uno ‘spaventapasseri’ che non disturbi i manovratori del Nazareno), probabilmente già deciso con Silvio Berlusconi, che verrà tirato fuori dal mazzo al momento opportuno. Del resto, è lui stesso ad ammetterlo candidamente: «Il Pd farà un nome secco per il Colle, alla quarta votazione, e non proporrà una terna». Ordini chiari e precisi che il ‘quasi dissidente’ lettiano Francesco Boccia non ode, augurandosi al contrario che «da oggi in poi si tiri fuori una rosa di nomi che vada bene a tutte le forze politiche», M5S compreso. A favore della ‘rosa’ si dice anche il deputato Franco Monaco, ma il presidente della Repubblica verrà eletto solo «con chi ci sta», ribadisce a muso duro Renzi. Fiori nei cannoni, invece, per il ‘dissidente a targhe alterne’ Stefano Fassina che caldeggia l’unità del partito e la necessità di «cercare l’interlocuzione anche con Forza Italia». Alla faccia di Tsipras e delle bellicose prese di posizione dei mesi scorsi. Al contrario, Davide Zoggia implora, inascoltato, di evitare la scelta di un nome che venga «associata al patto del Nazareno». Proposta condivisa da Cesare Damiano.

Decide invece di rompere gli indugi (forse) il ‘civatiano’ Pippo Civati che prende carta e penna per scrivere una lettera alla segreteria Pd per indicare il suo nome per il Colle: Romano Prodi. Un palese tentativo di mettere in difficoltà l’ex amico Renzi. Un nome, quello di Prodi, «fuori dai giochi» secondo il renziano doc Stefano Bonaccini. Chi invece sente puzza di marcio è Francesco Storace che giudica «gravissimo» l’annuncio di Renzi. «La scheda bianca alle prime tre votazioni significa che si va ad un soluzione di basso profilo», denuncia su facebook il fondatore de La Destra, «ad una scelta con la pistola sul tavolo quando i voti necessari saranno 505 e il premier potrà ricattare praticamente tutti gli schieramenti, ad un metodo che renderà determinanti 148 parlamentari eletti con un premio di maggioranza incostituzionale».

Charlie Hebdo e i politici italiani

charlie hebdo renzi alfanoAnche i politici italiani non possono esimersi dal tempestare le Agenzie con decine di dichiarazioni più o meno intelligenti sulla portata storica dell’attentato di Parigi. Il premier Matteo Renzi si reca in visita all’Ambasciata di Francia e il ministro dell’Interno Angelino Alfano è costretto a convocare il Comitato Antiterrorismo. Allarme e panico tra i giornalisti dello Stivale, sedi dei Media presidiate. Un «gesto vile e barbaro» secondo il presidente Giorgio Napolitano. Una «follia» per Silvio Berlusconi.

Tra le reazioni dei nostri onorevoli da segnalare quelle degli esponenti di centrodestra come Renato Brunetta, Maurizio Lupi, Lucio Malan che vedono la priorità nella lotta al terrorismo rifacendosi al principio del presunto ‘scontro delle civiltà’ tra Occidente e Islam. Un passetto più in là lo fanno i soliti leghisti Mario Borghezio («siamo in guerra») e il suo segretario Matteo Salvini che incita a «bloccare l’invasione clandestina in corso» perché abbiamo «il nemico in casa». Li segue a ruota l’altrettanto solito Maurizio Gasparri per il quale bisogna «colpire le centrali del terrorismo» (riecco la ‘spirale guerra-terrorismo’). E pure Giorgia Meloni dice «basta all’immigrazione incontrollata». Di diverso tenore la reazione del M5S. «Nessuna guerra è giustificabile. Nessun colpo di pistola o di kalashnikov è giustificabile», twitta Carlo Sibilia del Direttorio grillino. E il collega Alberto Airola invita a non «alimentare guerre di religione».

Ma Beppe Grillo mette in dubbio la ‘paternità islamica’ dell’attentato e fornisce una versione complottista di una vicenda che porterà inevitabilmente a una stretta sulla libertà di stampa, chiedendosi «chi muove i fili del terrorismo e perché?». Dal fronte della ‘sinistra chic’, la ancor più ‘solita’ Laura Boldrini, presidente di Montecitorio, invita a «distinguere tra terroristi assassini e musulmani». Un classico. Per tutto il Pd per una volta unito, infine, è in gioco la «difesa della democrazia».

La Soluzione Finale della Questione Palestinese

Soluzione FinaleLa Soluzione Finale dello storico conflitto tra ebrei e musulmani in Palestina è tutta nelle mani di Israele. Lo Stato ebraico possiede, infatti, una superiorità militare talmente schiacciante nel teatro mediorientale da doversi assumere direttamente la responsabilità del destino di due popoli (israeliani e palestinesi), della pace nella cosiddetta Terra Santa e, persino, di un eventuale conflitto allargato su scala regionale, o mondiale.

Attenzione però a non cadere in un facile equivoco. La Soluzione Finale qui proposta non dovrà certo essere un nuovo Olocausto, una nuova Shoah, come quella perpetrata dai nazisti ai danni del “popolo eletto” durante la II Guerra Mondiale. La Soluzione Finale della Questione Palestinese dovrà essere pacifica, anche se la tentazione di commettere un genocidio (più di 1000 i morti a Gaza fino ad oggi, quasi tutti civili) arde costantemente nei cuori e nelle menti degli uomini del governo Netanyahu e dei soldati dell’IDF. Fare piazza pulita una volta per tutte dei palestinesi con la scusa di combattere i “terroristi” di Hamas farebbe comodo agli ultraconservatori con la kippah e al movimento para-nazista dei coloni. Ma una simile decisione potrebbe condurre Israele stesso all’estinzione.

E allora, che fare? Innanzitutto bisogna liberare il campo dalla propaganda. Basta con la sterile e macabra conta dei morti della “diversamente guerra” tra Israele e Hamas, propinata ogni giorno dai Media sciacalli ad un pubblico peraltro sensibile più alla sofferenza del proprio cane piuttosto che a quella di qualche bambino straccione (gazawi, siriano, eritreo. Fate voi).

Israele deve prendere in mano il mazzo di carte della diplomazia e garantire unilateralmente la fondazione di due Stati per due popoli, Israele e Palestina, rispettando i confini stabiliti dopo la Guerra dei 6 giorni nel 1967. Soluzione che scontenterebbe tutti, ma che è l’unica rimasta praticabile alla luce della storia degli ultimi decenni, dal 1948 in poi. Una soluzione pragmatica con la quale non si chiede ad Israele di suicidarsi impiccandosi alla corda dell’estremismo islamico. Prima bisognerebbe stabilire l’ennesima road map e assicurare allo Stato ebraico un incondizionato appoggio internazionale (come di fatto già accade).

Ecco le ipotetiche condizioni:

“Io, Israele, mi impegno a rendere la Striscia di Gaza e la Cisgiordania parti di uno Stato libero dal quale i cittadini potranno entrare ed uscire liberamente. Basta dunque con il blocco di Gaza e con il regime di apartheid imposto a milioni di palestinesi. Resta beninteso che se Hamas, o qualsiasi altro gruppo armato, continuerà a porsi l’unico obiettivo della distruzione di Israele attaccandone il territorio, questa volta Tsahal potrà reagire con tutta la sua potenza, invadere la Striscia e farne terra bruciata. Il tutto con l’approvazione di Usa, Russia, UE e Onu”.

Fantapolitica? Forse. Ma qualcuno conosce una soluzione migliore? Il “lungo conflitto” prospettato da Netanyahu non sta facendo altro che attirare verso Israele l’odio del mondo. La strage di civili palestinesi, trasmessa in diretta globale da network come CNN e Al Jazeera, rischia di rivelarsi un boomerang per gli ebrei di tutto il mondo. È divenuto difficile persino per intellettuali e politici occidentali, filogiudaici per partito preso, nascondersi sotto l’ombrello dell’antisemitismo, sbandierato da decenni per coprire ogni malefatta compiuta dallo Stato di Israele. In Europa (soprattutto in Francia a Gran Bretagna, ma anche in Italia) si moltiplicano le proteste anti israeliane, le scritte minacciose e gli atti di violenza che una volta venivano gettati tutti nel calderone dell’antisemitismo. Una miccia che rischia di far esplodere una polveriera che distruggerà Israele se quest’ultimo non decide al più presto per la Soluzione Finale.

Genocidio a Gaza. Israele sfida il mondo

genocidio GazaContinua l’assedio di Tsahal alla Striscia di Gaza. L’offensiva di terra si fa sempre più imminente. A parlare apertamente di un “genocidio”, messo in atto dall’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi di Gaza, per il momento è stato solo il presidente palestinese Abu Mazen. “Dobbiamo fermare questo massacro, questo è un genocidio”, ha detto il leader dell’ANP nel corso della riunione straordinaria dell’Olp di mercoledì scorso a Ramallah. Il resto della comunità internazionale, ad eccezione di alcuni stati musulmani con in testa l’Iran, continua invece ad avere le mani legate dalla diplomazia che considera intoccabile lo “Stato canaglia” di Israele.

Nel contesto dell’interminabile conflitto arabo-israeliano in Terra Santa rimarranno di certo scolpite nella storia le parole pronunciate dal presidente dello Stato ebraico Shimon Perez, uno che nello scacchiere politico viene considerato una colomba. “Un’offensiva di terra potrebbe avvenire presto, a meno che Hamas non fermi i razzi contro Israele”, ha detto in una intervista alla CNN l’eroe degli accordi di Oslo e Camp David del 1993 (insieme ai defunti Itzak Rabin e Yasser Arafat). Secondo Perez “il misericordioso”, insomma, il bombardamento indiscriminato che sta facendo decine di morti a Gaza sarebbe una risposta proporzionata alle centinaia di razzi lanciati da Hamas in territorio israeliano.

Peccato che le “armi micidiali” degli estremisti islamici non abbiano sortito al momento alcun effetto distruttivo (non un caduto che sia uno con la stella di David), mentre la Striscia rischia di assomigliare a Dresda dopo il bombardamento Alleato della II Guerra Mondiale. Intendiamoci, non è intenzione di chi scrive dividere il campo tra i “buoni” palestinesi e i “cattivi” ebrei. Risulta però storicamente innegabile che le mani e le menti degli estremisti di Hamas e degli altri gruppi operanti a Gaza e Cisgiordania siano state armate dall’occupazione iniziata nel 1967 e dal conseguente regime di apartheid in cui sono relegate milioni di persone dalla politica razzista di Israele.

Assodato, anche in questo caso storicamente, il diritto al ritorno nella terra promessa e alla fondazione dello Stato di Israele da parte degli ebrei (quasi cancellati dall’Olocausto di Hitler), nessuno si è mai preoccupato del diritto dei palestinesi all’esistenza. La causa della guerra permanente in Palestina, dunque, è il carattere messianico dell’estremismo sionista, mescolato in un cocktail micidiale alla rabbia degli arabi che nel corso degli anni si è coagulata nell’estremismo di matrice islamica. Infatti, è utile ricordare agli smemorati che nel 1987, data della prima Intifada, gli “straccioni” palestinesi erano armati solo di pietre. Ed è da quel momento, una lotta impari contro l’esercito più armato del mondo, che si decise di sviluppare un arsenale militare.

Oggi, il governo Netanyahu, espressione dell’estrema destra e del movimento para-nazista dei coloni, sembra non dimostrare pietà (“Nessuna tregua in agenda”) e usa come scusa proprio la minaccia armata contro i “ricchi” israeliani rappresentata da Hamas, incoraggiato come sempre dalle divisioni della comunità internazionale. Dalla Casa Bianca l’amministrazione Obama si limita a condannare i “missili terroristi” lanciati da Hamas. Identica la posizione dei cugini europei della Gran Bretagna, mentre il resto della UE è divisa o preferisce tacere. Contraria, ma ininfluente, la posizione del Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che definisce “inaccettabili” gli attacchi missilistici israeliani.

Nel campo opposto, il già citato regime degli ayatollah auspica la firma di un accordo imposto dalle “potenze occidentali che sostengono i sionisti”. Duro, ma solo a parole, anche il Segretario Generale della Lega Araba, Nabil al Arabi, che chiede alle Nazioni Unite di “adottare misure per fermare l’aggressione israeliana”. Il venezuelano Maduro, successore del defunto Hugo Chavez, condanna senza mezzi termini “l’illegale Stato di Israele” e si schiera dalla parte “dell’eroico popolo palestinese”. Tutti però sembrano impotenti. Logico allora che le speranze revansciste degli oppressi palestinesi si concentrino sull’Isis e sul nascente Califfato islamico siro-iracheno.

La jihad minaccia Baghdad. Obama chiede aiuto all’Iran

Isis jihadDecine di migliaia di miliziani dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), una delle costole della galassia di Al Qaeda, sono in marcia in direzione di Baghdad dopo aver conquistato buona parte del nord dell’Iraq e aver proclamato un Califfato islamico che comprende, oltre alle città di Mosul e Falluja, anche parte della Siria settentrionale. Il presidente Usa Barack Obama, messo nell’angolo dall’opposizione repubblicana, prospetta l’invio di droni e bombardieri per colpire gli jihadisti e conta inoltre, anche se questo la diplomazia ufficiale non potrà mai ammetterlo, anche sull’aiuto offerto direttamente sul campo di battaglia iracheno dalla Repubblica Islamica dell’Iran, di fede sciita, i cui santuari di Kerbala e Najaf sono ora minacciati dagli odiati fondamentalisti sunniti.

Solo pochi giorni fa questa notizia sarebbe stata presa come una “bufala” dall’opulento e disinformato mondo occidentale. Tutto vero, invece, compresi i contatti informali tra il Grande Satana americano e i barbuti ajatollah di Teheran. Nessuno al momento, analisti politici compresi, è riuscito a spiegarsi da dove salti fuori questo esercito di straccioni organizzati che sta già imponendo la sharia nei territori finiti sotto il suo controllo. È vero che, un giorno sì e l’altro pure, i trafiletti dei tg riportavano notizie di bombe che esplodono a Baghdad e che fanno decine di morti. Ma è l’Iraq, si pensava, normale che sia così in assenza dei gendarmi a stelle e strisce che intanto stavano abbandonando il campo.

E, invece, l’irresistibile cavalcata verso la città delle Mille e una notte dei fondamentalisti islamici eredi di Bin Laden, ha sancito definitivamente di fronte al mondo intero il disastroso fallimento dell’aggressione imperialista americana di Afghanistan e Iraq ordinata dal presidente George Bush jr. sull’onda emozionale della tragedia dell’11 settembre. Iniziata nel marzo del 2003, costata quasi 7mila morti americani e un numero indefinito di iracheni, pagata 3mila miliardi di dollari, la guerra in Iraq non è mai finita ufficialmente (nonostante il mission accomplished pronunciato dal mandriano texano Bush sulla portaerei Lincoln il 1° maggio 2003) e si è trasformata, insieme all’Afghanistan dei talebani, nel nuovo Vietnam degli Stati Uniti.

A cosa sono servite tutte queste morti, distruzioni e spese folli se in Iraq (come in Afghanistan, Siria, Libia etc.) non esiste nemmeno una parvenza di Stato civile? Anzi no, in Iraq uno Stato adesso esiste, ma è quello imposto con la forza (ma in molti casi accettato dalla popolazione) dai guerriglieri dell’Isis attraverso la sharia. Una legge del taglione, di stampo medievale, ma comunque preferibile alla dittatura capitalista imposta dagli Usa e protetta dal governo fantoccio dello sciita moderato Nouri al Maliki. Sharia che anche gli studenti coranici talebani dell’Afghanistan imporranno non appena l’ultimo soldato invasore avrà abbandonato la loro terra.

Che fare, dunque? Reimbarcare armi e bagagli e tornare a occupare mezzo Medioriente manu militari? Impossibile. L’opinione pubblica americana non lo accetterebbe, men che meno quella europea. Meglio allora cercare una soluzione nella diplomazia e affidarsi all’opzione iraniana. I pasdaran della rivoluzione si trovano già sul terreno iracheno e nel sud sciita hanno trovato l’appoggio dell’imam Muqtada_al-Sadr e del suo Esercito del Madhi. Ma lo stesso generale Qasem Suleiman, capo della Forza Quds dei pasdaran e uomo di punta delle operazioni militari del regime, si è recato a Baghdad.

L’inedita alleanza tra Usa e Iran che va prospettandosi dimostra la necessaria natura machiavellica della politica. Ad un tratto, di fronte all’avanzata dello jihadismo sunnita, 35 anni di guerra fredda iniziati nel 1979 vengono messi in soffitta. La prospettiva Occidentale, poi, è anche quella di accaparrarsi le riserve di gas iraniane vista la brutta aria che tira dalle parti della Russia di Putin con la crisi Ucraina.

Dall’India con furore: l’urlo dei marò terrorizza i burocrati romani

urlo GironePeccato che la tradizionale parata militare del 2 giugno, Festa della Repubblica, sia stata rovinata dalla voce di Salvatore Girone, il marò detenuto in India insieme al collega Massimiliano Latorre per il presunto omicidio di due pescatori. Tutto sembrava andare per il meglio, tra il premier Renzi che batteva cinque senza sosta e le Frecce Tricolori tornate orgogliosamente a solcare i cieli della Capitale. Poi, come un fulmine a ciel sereno, di fronte alle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato appaiono i volti dei due militari, avvolti nella tradizionale uniforme bianca, collegati via internet da New Delhi.

Un saluto ai marò previsto e concordato in occasione delle celebrazioni di via dei Fori Imperiali. Ma questa volta c’è qualcosa di diverso rispetto al solito. Il volto dei due soldati è tirato, il tono della voce visibilmente alterato. Soprattutto quello di Girone che, di fronte allo stupito silenzio dei parrucconi romani in alta uniforme (militari e politici), prende la parola:

Auguro a voi buona Festa della Repubblica, lo auguro agli italiani e a tutti i colleghi militari. Non è bello non essere tra di lorodice a denti stretti e con la bava alla bocca il fuciliere di marinaDopo due anni siamo di nuovo costretti ad assistere da una webcam. Abbiamo obbedito a degli ordini, abbiamo mantenuto una parola e la continuiamo a mantenere con grande dignità. E siamo ancora qui. Vorremmo che fosse riconosciuta la nostra innocenza, che i Paesi si parlassero non per le rotture. Il muro contro muro non serve. Continueremo a comportarci con dignità. Ogni militare impegnato in questo momento, americano o inglese, italiano o indiano, deve sentirsi tutelato nei propri diritti”.

Più che un cordiale saluto, quello pronunciato da Salvatore Girone ha tutta l’aria di essere un avvertimento, una sorta di pizzino inviato agli alti papaveri del governo e dell’esercito che, a suo modo di vedere, non hanno rispettato i patti (sconosciuti all’opinione pubblica) né saputo svolgere il loro mestiere. Non si spiegherebbe altrimenti la necessità dei marò di ribadire pubblicamente di “aver obbedito agli ordini” e di “aver mantenuto la parola” nei confronti delle Istituzioni italiane rivelatesi fin qui incapaci di portarli via da un paese divenuto “ostile” come l’India del neoeletto Primo Ministro Narendra Modi, leader nazionalista indù pronto a mostrarsi inflessibile sul caso marò.

Evidentemente la pazienza dei due militari è arrivata al limite e la paura di vedersi infliggere una condanna pesante sta facendo saltare i nervi a Latorre e Girone. Archiviata la disastrosa gestione del caso da parte dell’ex ministro degli Esteri, Emma Bonino e del suo improponibile inviato a Delhi Staffan De Mistura, l’era di Federica Mogherini alla Farnesina non si è certo aperta sotto i migliori auspici per i fucilieri di marina: silenzio diplomatico assordante. La speranza però è l’ultima a morire. Per questo Girone ha lasciato aperto uno spiraglio di trattativa con i burocrati romani confermando di “continuare ancora a mantenere la parola data”.

In caso contrario, ci si aspettano delle rivelazioni bomba di Girone e Latorre sulla composizione della catena di comando responsabile del disastro dell’uccisione dei pescatori nelle acque del Kerala ma, soprattutto, della imbelle consegna dei marò alle autorità indiane. In questo contesto, non è centrale l’accertamento della responsabilità dei nostri militari – che dovranno comunque pagare il loro conto con la giustizia se riconosciuti colpevoli, anche se continuano a professarsi innocenti – ma il rispetto delle regole di ingaggio internazionali per i militari imbarcati in servizio antipirateria. Interessante, in questo senso, l’iniziativa di alcuni cittadini che hanno presentato un esposto alla procura di Roma per denunciare Napolitano e Monti colpevoli di aver estradato i due marò in un paese dove vige la pena di morte.

Trattative UE: Cameron pone il veto su Juncker. Grillo sceglie Farage

farage-grilloIn Europa continuano le grandi manovre per decidere il futuro assetto dell’UE. Archiviate le elezioni del parlamento di Strasburgo, adesso le attenzioni sono tutte concentrate sulla nomina del presidente della Commissione europea che dovrà sostituire il portoghese Josè Manuel Barroso. Di fronte ai risultati elettorali che confermano il Partito Popolare Europeo di centrodestra come prima famiglia politica di Bruxelles (seguiti a ruota dai Socialisti e Democratici di centrosinistra), ragione vorrebbe che a occupare la poltrona di Commissario sia il decano dei burocrati europei Jean Claude Junker, frontman dei Popolari nei recenti dibattiti elettorali contrapposto a Martin Schulz (D&S), Alexis Tsipras (Sinistra), Guy Verhofstadt (Liberali-Alde) e Ska Keller (Verdi).

Il colpo di scena arriva però da un’anticipazione fornita dal quotidiano tedesco Der Spiegel secondo cui i giochi per l’ex presidente dell’Eurogruppo, sostenuto da Angela Merkel, si sarebbero maledettamente complicati a causa del veto posto sul suo nome da David Cameron, il premier conservatore britannico (iscritto in Europa ad un gruppo diverso dai Popolari). Sconfitto e umiliato nelle urne dall’Ukip di Nigel Farage, Cameron è costretto adesso a fare la voce grossa e antieuropeista per non finire spazzato via in patria da un’opinione pubblica divenuta sempre più ferocemente euroscettica.

L’inquilino di Downing street avrebbe minacciato addirittura l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue in caso di elezione di Junker, definito “un volto degli anni ’80 che non può risolvere i problemi dei prossimi 5 anni”. La prospettiva di Cameron è quella di anticipare il referendum antieuropeo dal 2017 al 2016. Una mazzata a cui Junker ha risposto a stretto giro di posta dal giornale, sempre tedesco, Bild am Sonntag: “L’Europa non dovrebbe essere ricattata”.

Fibrillazioni nel centrodestra europeo che si riverberano anche a livello nazionale in Italia. I partiti di centrodestra per così dire “tradizionali”, berlusconiani come Forza Italia e diversamente berlusconiani come Ncd di Angelino Alfano, rimangono saldamente ancorati nella grande casa dei Popolari, se pur con pesanti distinguo. Non si è ancora sopita, infatti, l’eco del botta e risposta tra lo stesso Junker e Silvio Berlusconi: il burocrate lussemburghese pretendeva le scuse del capo di FI per aver detto che i tedeschi negarono i lager. Ma per il momento nessun provvedimento di espulsione degli azzurri dal gruppo europeo è in vista (i loro 13 parlamentari pesano eccome). Con i suoi 3 eletti risulta praticamente non pervenuta la lista Alfano-Casini, mentre la Lega di Matteo Salvini veleggia saldamente verso l’alleanza con il Front National di Marine Le Pen nel gruppo che ritiene l’Euro un fallimento.

Discorso più complicato, invece, per il M5S di Beppe Grillo. A giudicare dalla poderosa campagna pro-Farage comparsa sul blog di Grillo, sembrerebbe che il guru e Casaleggio abbiano già scelto l’alleanza con il leader Ukip (in attesa del decisivo voto della Rete). L’ultimo post è quello del professor Paolo Becchi che si scaglia contro la congiura mediatica che descrive Farage come un razzista xenofobo e invita il Movimento a stringere questa “alleanza necessaria”. Nei giorni scorsi era stato lo stesso Grillo a dire la verità su Nigel Farage, ricordando la libertà di voto concessa ai suoi iscritti dal gruppo Europe of Freedom and Democracy (EFD) di cui l’Ukip è il partito trainante (nucleare e rinnovabili vengono dopo la caduta di questa idea di Europa).

Superfluo ricordare ai sostenitori pentastellati asciutti di politica che l’iscrizione ad un gruppo nel parlamento di Strasburgo risulta vitale per non essere destinati all’oblio. Inutile e controproducente, dunque, gridare al gruppo autonomo come più o meno accade in Italia: qui di partiti antisistema che contano è rimasto solo M5S, mentre in Europa di euroscettici ce ne sono a palate. Assurdo, poi, avanzare una proposta di alleanza con i Verdi visto che Monica Frassoni, Presidente del Partito Verde Europeo, ha definito “un delirio” la proposta per l’Europa di Grillo. Il nemico del mio nemico è mio amico. Questa la logica che il grillismo deve seguire. E Farage è molto più nemico dell’Europa delle banche che non gli europeisti radical-chic, Verdi sì, ma solo per moda.

Farage-Grillo e Le Pen-Salvini, le coppie euroscettiche spaventano Bruxelles

Farage GrilloMercoledì 28 maggio, ore otto del mattino. Aeroporto Malpensa di Milano, volo per Bruxelles. Non si saprà mai se sia rimasto più sorpreso Matteo Salvini di ritrovarsi praticamente accanto Beppe Grillo, oppure il guru euroscettico del M5S di viaggiare verso la capitale della Ue insieme al giovane segretario della Lega, decisamente orientato su posizioni anti-euro. Ma cosa ci facevano i due portabandiera dell’euroscetticismo italiano (insieme a Giorgia Meloni, leader senza quorum di Fd’I) sullo stesso aereo diretto a Bruxelles?

Lo scopo del viaggio di Salvini non era un mistero per nessuno: pranzo di lavoro con Marine Le Pen, regista della vittoria del Front National in Francia, per concordare un piano comune e formare un gruppo di parlamentari anti-euro a Strasburgo che i detrattori già definiscono populista, razzista e fascista. Il colpo di scena arriva invece da Grillo che nella capitale belga c’è andato di soppiatto per incontrare Nigel Farage, animatore del britannico Ukip, partito euroscettico, ma senza connotazioni ideologiche, che punta a rivoltare l’Europa come un calzino e a far uscire la Gran Bretagna dall’Unione. Sul contenuto dell’incontro finora non è trapelato nulla e Grillo ha detto solo che “adesso stiamo solo sondando, sondiamo. Mi appello al quinto emendamento. Vedrete tutto sul mio blog”. Si sa che nel M5S non decide Grillo ma la Rete.

Farage è forte del sorpasso storico nelle urne sia dei Laburisti che dei Conservatori il cui leader David Cameron è attualmente inquilino del n.10 di Downing street. Per evitare una crisi di governo, ora Cameron dovrà mostrarsi più intransigente nei confronti dell’Europa e concedere a Farage nel 2017 un referendum sull’uscita dall’Ue. Grillo, al contrario, esce ridimensionato dalla batosta elettorale subita da Renzi, ma resta sempre a capo del secondo movimento politico italiano, dotato di un patrimonio di 17 europarlamentari molto scettici. Proprio il bottino che interessa a Nigel Farage che, senza i numeri di Grillo, può scordarsi di fare concorrenza a Le Pen figlia sul terreno dell’euroscetticismo. Per formare un gruppo a Strasburgo, infatti, pena l’irrilevanza politica, occorrono 25 parlamentari di 7 paesi diversi.

Fonti dell’Ukip assicurano che sono già stati presi contatti con delegazioni di partiti o singoli rappresentanti di altri 5 paesi. A questo punto mancherebbe solo il M5S per chiudere il cerchio magico dei 7. Per questo, già dal giorno successivo alle elezioni, era partito il pressing degli uomini di Farage nei confronti dei grillini. Secondo l’Huffington Post gli sherpa in incognito sarebbero stati Emmanuel Bordez, attuale segretario generale del gruppo euroscettico Efd, in rappresentanza di Farage, e Claudio Messora, responsabile comunicazione M5S, per conto di Grillo. Inoltre, gira voce di alcune telefonate intercorse tra Farage e Gianroberto Casaleggio.

Il gruppo Farage-Grillo partirebbe da una cinquantina di seggi, qualcuno in più della già affiatata coppia Le Pen-Salvini. L’unico impedimento che per il momento ha bloccato i pentastellati è proprio il rischio di essere additati come fascisti, visto che all’interno dell’Ukip, come afferma il giornalista del Financial Times John Lloyd, non mancano “opinioni estreme sull’immigrazione e contenuti razzisti”. Ma il rischio da correre vale l’uscita dalla scomoda posizione di isolamento in cui sono stretti i grillini.

Discorso diverso per la coppia Le Pen-Salvini che viaggia spedita verso l’unione di fatto. Dopo aver umiliato i socialisti del presidente Francois Hollande, la bionda Marine ha promesso un “referendum per chiedere ai francesi se vogliono uscire dall’Euro” se dovesse essere eletta all’Eliseo. Non più solo No all’euro, come teorizzato anche dal segretario leghista, ma messa in discussione della stessa partecipazione transalpina alla Ue. Musica per le orecchie di Salvini, fumo negli occhi per i boiardi europei come Merkel e Renzi che, sordi alle rivendicazioni dei popoli, si apprestano ad eleggere Jean Claude Junker, o un altro oscuro burocrate, alla testa della Commissione.

Caso Geithner: Berlusconi invoca una commissione di inchiesta

caso GeithnerSilvio Berlusconi, ospite a Coffee Break su La7, invoca una commissione di inchiesta sul caso Geithner. La storia del presunto complotto internazionale che portò alla caduta del suo governo nel novembre del 2011, raccontata dall’ex Segretario al Tesoro Usa Tim Geithner nel suo libro di memorie Stress Test, è stata presa molto seriamente dal capo di Forza Italia, non si capisce ancora se per mero interesse elettorale o perché il complotto contro di lui sia avvenuto veramente. “Le mie dimissioni sono state responsabili ma non libere – ha detto Silvio giovedì mattina – Ci sono state molte pressioni, ci sono dei fatti enormi che necessitano una commissione d’inchiesta”.

Le rivelazioni di Geithner hanno innescato un inevitabile scontro semi-istituzionale tra il Caimano decaduto e condannato e l’inquilino del Colle Giorgio Napolitano che con un comunicato ufficiale ha negato di essere a conoscenza di un putsch antiberlusconiano organizzato dalla UE. Ma cosa ha scritto di preciso l’influente politico americano? Geithner racconta che nell’autunno 2011 l’amministrazione Obama era in “costante contatto” con le “controparti europee”. Alcune di loro – continua l’ex Segretario – ci hanno spesso chiesto di intervenire per fare pressioni sul cancelliere Merkel affinché fosse meno avara, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili”.

Segue poi la frase che sta scatenando un putiferio in Italia:

“A un certo punto in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci hanno approcciato con un complotto per provare a fare cadere il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Volevano che rifiutassimo di appoggiare i prestiti del Fondo Monetario Internazionale all’Italia fino a quando lui (Berlusconi ndr) non se ne fosse andato. Abbiamo riferito al presidente di questo sorprendente invito ma, per quanto sarebbe stato utile avere una migliore leadership in Europa, non potevamo essere coinvolti in un piano come quello. «Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani», ho detto”.

Dunque, Geithner dichiara solennemente che almeno un tentativo europeo di “complotto” fu messo in atto. Non dice se questa iniziativa illegale e antidemocratica andò in porto. Non fa nemmeno i nomi dei funzionari della Ue coinvolti, ma non ha difficoltà a dipingere Barack Obama e i suoi come paladini della libertà e della legalità. Un atteggiamento alquanto vile e doppiogiochista per uno che negli Usa ha ricoperto un ruolo equivalente a quello del nostro ministro dell’Economia. E poi, la sua teoria si basa su un punto discutibile: negare il prestito del FMI all’Italia quando il governo Berlusconi, pur di mantenere l’onore, si rifiutava di finire sotto tutela della Trojka e avrebbe piuttosto lasciato affondare il paese. Nessun riferimento nemmeno allo scontro interno al Pdl con Tremonti che portò all’implosione del Berlusconi IV.

Per quanto riguarda Napolitano, Re Giorgio ha scritto che, a parte “le inopportune e sgradevoli espressioni pubbliche di scarsa fiducia negli impegni assunti dall’Italia, null’altro di pressioni e coartazioni subite dal Presidente del Consiglio nei momenti e nei luoghi di recente evocati fu mai portato a conoscenza del Capo dello Stato”. Posizione pilatesca che ha scatenato l’ira di Silvio.

Berlusconi prima ha spiegato che il complotto fu organizzato perché lui si opponeva alla “colonizzazione dell’Italia” da parte del FMI e dell’Europa a guida tedesca e ha denunciato “l’imbroglio degli spread”. Poi si è lamentato (giustamente) perché questa notizia bomba non trova spazio sulle prime pagine dei media e ha liquidato la nota del Colle dicendo di non poter “parlare del Capo dello Stato” altrimenti rischia di finire a San Vittore. Berlusconi non lo dice ma, scrive Adalberto Signore sul Giornale, è “fermamente convinto che Napolitano abbia avuto un ruolo di primo piano” nella vicenda del “colpo di Stato” del 2011. Gli indizi della colpevolezza del presidente? Gli incontri con Monti già in giugno, l’avallo della lettera della Bce firmata da Jean-Claude Trichet e scritta da Mario Draghi. “È lui il vero regista e il fatto che ora se ne lavi le mani rasenta il ridicolo”. Questo il succo del Berlusconi pensiero su Napolitano.